Cambodia or bust n. 4 – 29 maggio 2015

Le immagini viaggiano sempre più rapide delle parole. Ma le immagini qualche volta non catturano quello che c’è dietro i volti, dietro le apparenze, altre volte invece sono più esplicative di qualsiasi racconto.

Primo giorno di lavoro a Domnak Chamboak. La mattina un po’ di divertimento ad insegnare come si chiamano le varie parti del corpo ai bambini, con un disegno meraviglioso del corpo umano, che solo un artista nel profondo come me poteva concepire. Uno dei bimbi l’ha copiato uguale uguale sul suo quaderno in ogni piccolo particolare (la cosa mi preoccupa un po’). Comunque è servito egregiamente allo scopo e i bambini mi hanno seguito molto bene nella lezione, insegnandomi a loro volta i nomi cambogiani (credo di ricordarne uno o due, a essere sincero).

Nel pomeriggio la parte difficile della giornata. Ci sono quattro bambine, nuove arrivate nel centro, che hanno delle situazioni familiari molto delicate. Hanno tutte 11-12 anni e tre frequentano la quarta classe della scuola primaria, mentre una è indietro, in seconda.

La giornata per fortuna si presenta con un bel venticello, altrimenti la camminata tra i campi, per la maggior parte ancora asciutti, nonostante le prime piogge di questi giorni, sarebbe davvero improba.

Le bimbe abitano tutte piuttosto distante. Arrivare alla prima casa sembra una camminata infinita, sui viottoli a cavallo delle vasche che accolgono le risaie, ma spesso tagliando direttamente per i campi dove sono ancora secchi. Più ci addentriamo nella campagna e più incontriamo sprazzi di bel verde smeraldo. Campi di canna da zucchero, coltivazioni di chili (peperoncino), le prime risaie irrorate da pompe che pescano l’acqua da pozze e stagni.

Prima fermata e prima stretta allo stomaco. La bimba vive con i nonni, perché i genitori sono via tutto il giorno a lavorare, la mamma è alla ricerca di lavoro a Sihanoukville e il papà lavora alle saline verso Kampot. C’è una sorellina più piccola. Un trappolino di 4 anni con un sorriso che ti ruba l’anima. Vuole venire anche lei al centro, appena possibile. Come fare a dirle di no? La nonna ha 57 anni, 3 più di me!

Proseguiamo la camminata e il sole si fa più cocente. Seconda casa, seconda foto, seconda stretta allo stomaco. Anche questa bimba è accudita dai nonni. I genitori si sono separati qualche tempo fa e hanno abbandonato lei e due sorelle al villaggio. Gli occhi pieni di speranza dei nonni e lo sguardo un po’ ritroso dei bambini non fanno che rigirare il coltello dentro.

Ancora avanti, sempre più nel verde e sempre più lontani dal nostro centro. Lungo il percorso troviamo una famigliola, mamma con figlia e figlio, che immersi fino alla cintola in uno stagno raccolgono gli steli di ninfea, che qui considerano una prelibatezza. Mentre la mamma e la sorella maggiore lavorano, il ragazzino si diverte immergendosi, comparendo e scomparendo sotto le enormi ninfee che praticamente coprono quasi tutto lo stagno. La foto è d’obbligo.

Ci riavviamo e dopo una ventina di minuti siamo a destinazione. Terza famiglia, terza stretta al cuore. La mamma parte la mattina alle 5 per andare a lavorare e torna alla sera. Prepara tutto il cibo al mattino per la nostra bimba e la sorella più piccola, da lei accudita. Ha una casa in muratura, al contrario delle altre due già viste, fatte di poco più che cartone e foglie. I nonni sono lì vicino. Si arrangiano come possono per sopravvivere e cercare di dare un aiuto anche alle nipotine. Chiedono chi sono io e Sokkea spiega tutto nel suo rapido cambogiano. Intuisco l’argomento più dagli sguardi dei nonni che dalla mia comprensione delle parole. I saluti si ripetono. Chumriaplia, Okun chraan.

Siamo ormai quasi a 2 ore e mezza di cammino, con qualche breve pausa per fare foto e un non banale passaggio su un ponticello che regge per miracolo il mio peso, ondeggiando in modo preoccupante al mio passaggio (non è tanto del bagno che mi preoccupo quanto della macchina fotografica che mi porto appresso).

Ultima casa. Ancora foto. Ancora nonni. I genitori non ci sono. Sono tutti e due lontano a lavorare e tornano al villaggio solo saltuariamente. Non ho capito se ci sono anche altri fratelli e sorelle. Ma ormai tra il groppo allo stomaco, la sete e la stanchezza, la lucidità diminuisce.

Dobbiamo assolutamente fare qualcosa. Dobbiamo assolutamente mettere le ragazze in priorità nel nostro programma di Sostegno a Distanza. Nei prossimi giorni ci lavoreremo con Sokkea, rivedendo tutte le singole situazioni e le priorità per l’accesso al Programma.

Sulla via del ritorno (io non ho la più pallida idea di dove siamo, ma le bambine si muovono con passo sicuro e ci danno la direzione) mille pensieri mi attraversano la testa. Su quanto la vita sia complicata per questi bambini eppure su quanto loro affrontino tutto questo con assoluto fatalismo e senza fare drammi. Penso al nostro modo di vivere, alla moda del lamentarsi che caratterizza la nostra società e veramente non abbiamo neanche la più pallida idea di cosa voglia dire l’espressione VITA DIFFICILE.

E questo vale per me per primo, non è una critica fatta ad altri.

Quando ci avviciniamo a Phnom Sosea, il villaggio sotto la pagoda, ci sono i nostri bimbi che escono da scuola.  “Riaplia Loak Kru” “Hello Franco!!”.

Poco più in là incontriamo Theara e Tiheng in bicicletta, che vengono via dalle lezioni pomeridiane di khmer al nostro centro. Appena ci vedono fermano la bicicletta e dopo un attimo di esitazione Theara prende un sacchettino dalle mani di Tiheng e me lo consegna facendomi capire che è un regalo per me. Dentro dei piccoli frutti rossi, che Sokkea mi aveva appena fatto assaggiare prendendoli da un cespuglio lungo il nostro percorso. Abbraccio Theara per ringraziarla e le mi fa segno verso Tiheng, il regalo è da parte sua, ma lei è troppo timida per dartelo direttamente, mi fa capire con i segni. Abbraccio anche Tiheng (anche lo scorso anno mi aveva preparato un regalo, in una piccola scatola di cartoncino fatta da lei, con un chewing gum, una penna e un piccolo portachiavi).

Quando arriviamo al centro sono le cinque del pomeriggio (eravamo usciti alla 1 e mezza). Salutiamo l’ultimo gruppo di bimbi che alla rinfusa rientra a casa. “Hello Teacher. See You tomorrow”.

Adesso la giornata è davvero finita. Sono esausto e aspetto solo che il tuk tuk mi riporti a Kep.

 

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