Cambodia or bust n. 9 – 22 gennaio 2014

Phnom Penh – 22 gennaio

Eccomi ancora una volta a Phnom Penh. Finalmente, dopo 10 giorni una doccia calda. Finalmente dopo 10 giorni a combattere con il pessimo segnale internet nella Don Bosco Guesthouse, che mi costringeva a scendere in giardino alle 11 di sera nel buio più totale, posso godermi il viso di mia moglie e mio figlio nel nostro collegamento via Skype.

La mattina il mio programma è quello di lavorare alle relazioni sulla missione e iniziare a tracciare le linee di integrazione del progetto, per mettere a fuoco, anche per me stesso oltre che per il mio Consiglio Direttivo e per i nostri associati e sostenitori, gli obiettivi aggiuntivi del progetto e i mezzi necessari per raggiungerli. C’è ancora così tanto da fare!

Esco dalla Guesthouse dove sono alloggiato alla ricerca di una colazione che assomigli almeno vagamente ad una colazione europea, o almeno americana, e che non sia a base di noodles o peperoncino e cipolla (qui con i sapori forti ci vanno a nozze fin dal mattino). Giro un po’ in tondo e mi dirigo verso O’Russey, uno dei mercati più grandi di Phnom Penh, che intravvedo, o almeno mi sembra di intravvedere, in fondo ad una strada imboccata dopo un coraggioso attraversamento tra macchine e motorini che mi sfrecciano a destra e sinistra. La strada è bloccata: ci sono due camioncini e un tuk tuk che litigano con il concetto fisico di spazio disponibile in mezzo alle bancarelle di pesce e verdura ai lati della strada e non c’è modo di passare nemmeno a piedi. Il caos di Phnom Penh, che già la prima volta che ci sono stato nel 2007 mi era sembrato allucinante, in questi ultimi anni, anche secondo quanto mi dicono gli amici che vivono qui, è decisamente peggiorato. Torno sui miei passi in direzione opposta e ripasso di fronte alla guesthouse, con i tuk tuk driver che iniziano ad avere qualche dubbio sulla mia lucidità mattutina, visto che è già la terza volta che passo davanti a loro. Alla fine mi arrendo ed entro in un tipico locale cambogiano, nessuna speranza di trovare qualcosa che assomigli ad una brioche. Chiedo se hanno del pane “Mian nuumpang dte?” ma il proprietario, che si è appena alzato dal tavolo al quale sta facendo la sua colazione a base di noodles con la giovane moglie e le loro due bimbe, scuote la testa. “Cafè Kdau” un caffè caldo. Dopo pochissimo mi arriva una tazza di caffè con sopra un pentolino dal quale l’acqua filtra, come nelle vecchie caffettiere napoletane, nel caffè per diventare la mia colazione.

Approfitto della pausa per sentire Igino, l’amico che qui a Phnom Penh ha da anni avviato una scuola laboratorio di oreficeria, dove con il metallo riciclato dalle mine anti uomo inesplose si confezionano piccoli gioielli cambogiani tutti lavorati a mano dai suoi ragazzi. Adesso ne ha con sé 10 con le relative famiglie. Ci diamo appuntamento per il pomeriggio, perché vogliamo andare a vedere l’appezzamento di terreno fuori Phnom Penh, dove presto sorgerà un nuovo laboratorio e una casa famiglia, intitolata a sua sorella scomparsa lo scorso anno.

Quando rirpendo il cammino vedo dalla cartina del mio GPS sul telefono che sono a poca distanza da Tuol Sleng, l’ex centro di detenzione e tortura del regime di Pol Pot, divenuto ora Museo del Genocidio a perenne testimonianza di quello che questo Paese ha dovuto subire, negli anni ’70, nell’indifferenza del mondo, cosiddetto civilizzato. L’avevo visto nel 2007 ed è sempre lì con il suo aspetto apparentemente tranquillo, ma che ti fa accapponare la pelle quando vedi e ti raccontano quello che lì dentro succedeva. Le migliaia di foto, meticolosamente raccolte dai carnefici khmer rossi, intenti a documentare le atrocità che commettevano, i volti terrorizzati, gli occhi sgranati di fronte alla macchina fotografica dei prigionieri di tutte le età, uomini, donne, bambini, sono lì che ti guardano da quel passato di sofferenza che puoi percepire palpabile nelle loro espressioni. Tuol Sleng era uno dei 150 centri di detenzione e tortura del regime di Pol Pot e delle circa 20.000 persone passate di qui, solo 7 sono sopravvissute. Due di loro le incontro nel cortile: dopo tanti anni, a poco a poco, hanno ritrovato la forza di tornare in questo luogo dove hanno vissuto la parentesi peggiore della loro vita, che li ha segnati per sempre. Si chiamano Chum Mey e Bou Meng. Li incontro separatamente, stringo loro la mano e li abbraccio. Una foto. Acquisto il libro che racconta la loro storia personale a S-21, come veniva anche chiamato Tuol Sleng. “Okun chraan” Grazie mille. Ancora emozioni. Emozioni forti.

Fa impressione sentire un amico cambogiano che ti dice che quando era piccolo, negli anni ’80, veniva spesso a giocare a pallone nel cortile di Tuol Sleng e che si ricorda come dappertutto ci fossero ancora i segni del sangue dei prigionieri. Da qualche anno è stato tutto ripulito. Troppo forte la sofferenza che da quel sangue trasudava. Già le immagini in bianco e nero e quello che resta delle celle e degli strumenti di tortura sono sufficienti a darti i brividi.

La guida che mi accompagna nella visita è una signora che forse ha la mia età o poco più. Mi racconta che nel periodo di Pol Pot ha vissuto in sei o sette provincie diverse, perché continuavano a spostarla da un centro all’altro. Ha perso 38 componenti della sua famiglia e il marito è stato ucciso dai Khmer Rossi a Battambang. E’ originaria della provincia di Svay Rieng, nella zona sud orientale della Cambogia, da dove viene anche mio figlio. Una delle provincie più povere della Cambogia. Mi dice che non riesce più a ritornare a Svay Rieng, perché ci sono troppi duri ricordi laggiù. Lei è qui a testimoniare quello che successe in quegli anni, con la sua viva voce e il suo inglese stentato, perché atrocità così grandi non vengano mai dimenticate e non si ripetano più. Quando parla, lo fa sempre con gli occhi che sembrano chiusi, come se il racconto le provocasse quasi una sofferenza fisica. “Okun” Grazie. Ancora qualche foto e poi via, quasi sollevato, fuori da questo posto da brividi.

Raggiungo Igino, dopo qualche peripezia con il mio tuk tuk driver. Mangiamo vicino al suo laboratorio, in un piccolo bistrot all’aperto; cibo cambogiano, ottimo. Paghiamo l’iperbolica cifra di 6 dollari in 3 (con lui c’è anche un amico appena arrivato anche lui dall’Italia) e ci avviamo verso la campagna a sud ovest di Phnom Penh. Passiamo davanti a Chang Oeuk, dove si trovano i cosiddetti Killing Fields, dove venivano portati i prigionieri di S-21. Passiamo davanti alla nuova discarica della città, e nella strada di accesso c’è la solita processione di giovani che vanno a lavorare all’interno per recuperare qualsiasi cosa che sia riciclabile e cercare di sopravvivere vendendo quello che raccolgono.

Dopo circa mezz’ora di viaggio siamo in una zona rurale in mezzo alle risaie, molto simile per certi versi a quella nella quale abbiamo il nostro Centro di Domnak Chamboak. Un bell’appezzamento di terreno, sul quale per il momento sorge solo un piccolo capannoncino che ospita uno spazio per lavorare e la casa di una delle ragazze che lavorano per Igino. E’ giovanissima (le darei forse 26-28 anni) ed ha già quattro figli (due maschi e due femmine), l’ultima nata da pochi mesi. Lo scorso anno lei e uno dei due figli maschi sono venuti in Italia, perché il piccolo aveva necessità di un intervento chirurgico di correzione delle vie urinarie che qui in Cambogia sarebbe stato molto complicato. Igino è stato capace anche di vincere questa avventura.

I bambini si rotolano nella paglia di riso, fatta dagli steli rinsecchiti delle piante di riso dopo il raccolto alla fine della stagione delle piogge. Ridono e si divertono. Ogni tanto il piccolo ci dimostra il buon lavoro svolto dai chirurghi italiani, facendo pipì un po’ dove capita e mettendo in mostra la notevole gittata del suo rinnovato “strumento”.

Ben presto incominciano ad arrivare i vicini. Tutti qui aspettano di poter lavorare per Igino e la sua organizzazione. Presto inizierà la costruzione, prima dell’inizio della stagione delle piogge che renderà tutto più difficile sia per il trasporto dei materiali che per la realizzazione vera e propria. Anche loro qui (ONG cambogiana e organizzazione gemella Ida Onlus in Italia), come noi a Kep, si sono impegnati in un progetto importante che necessita di un grande supporto. Cercheremo di dare loro una mano attraverso le donazioni che raccoglieremo, come negli anni scorsi, proponendo nei nostri mercatini di raccolta fondi i gioielli da loro prodotti qui in Cambogia.

Parliamo di progetti da sviluppare in comune. Ci sono sicuramente attività, soprattutto quando si fanno arrivare qui in loco medici o professionisti o intrattenitori (loro hanno ad esempio un programma di collaborazione con un’associazione di clown), che possono essere proficuamente condivise. Sicuramente ci sarà tempo e modo di sviluppare qualcosa insieme per i bimbi di Cambogia.

Rientriamo in città nel solito caos del traffico e ancora si chiude una lunga, impegnativa giornata cambogiana.

Remember ……… Cambodia or bust…..

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